lunedì 26 novembre 2012

A proposito di un paese che mi è tanto caro




Posto qui di seguito un articolo abbastanza lungo che ho scritto più di due anni fa sulla crisi debitoria greca


CRISI GRECA, CRISI DI TUTTI
Riflessioni di un profano

Quanto sta succedendo in Europa da qualche mese a questa parte è di portata veramente colossale, a tal punto che è proprio il caso di farsi un quadro della situazione, dal momento che ci riguarda da molto da vicino. Analizzare i meccanismi e le dinamiche di ciò che ci accade serve anche per guardarsi dall’ attribuire colpe e responsabilità a chi, magari, non c’entra niente o quasi.
 .
Mettiamo preliminarmente sul tavolo alcuni dati e facciamo quattro conti e alcune considerazioni: sappiamo che il debito pubblico è quanto uno Stato deve restituire ai suoi creditori; sappiamo anche che, piuttosto che la cifra, il debito pubblico si suole indicare in percentuale rispetto alla ricchezza prodotta ogni anno dallo Stato stesso, il cosiddetto PIL (Prodotto Interno Lordo). Sappiamo anche che un altro dato interessante è il deficit, cioè quanto uno Stato spende in un anno, e che anche questo dato viene espresso in percentuale sulla base del Pil. Bene, si dice che la Grecia sia in difficoltà perché ha un debito pubblico alto –si parla del 129% per un ammontare di più di 300mld di euro-, e perché ha registrato un deficit alto, pari al 14% del Pil. Ancora, si dice che Portogallo e Spagna comincino a essere nei guai e stiano rischiando; eppure il loro debito pubblico è ben al di sotto del fatidico 100%, specie per la Spagna. Si dice che a generare incertezza sulla loro tenuta finanziaria sarebbe il deficit di quest’anno –quello della Spagna sarebbe superiore al 10% del Pil. Quindi, a guardare questi dati verrebbe da dire che avere un debito pubblico e/o un deficit elevati sia un male per l’affidabilità dell’economia di un Paese. Ma attenzione! Prendiamo l’esempio del Giappone: i numeri sul suo debito pubblico oscillano – mi dispiace non fornire dati certi, ma il punto è che, ovunque ci si volga, i numeri sono sempre oscillanti- dal 192% al 220% del Pil! Cosa? Come è possibile che il Giappone non sia già fallito da un pezzo? Forse, dunque, dobbiamo rivedere l’affermazione di poco fa circa la pericolosità che un debito e un deficit alti rappresentano per uno Stato. Dove starebbe, allora, la differenza tra la Grecia e il Giappone?

Circolano tante letture di questo strano caso: per esempio, che in Giappone le tasse dirette e indirette sono basse e che, se ce ne fosse bisogno, potrebbero essere aumentate per pagare il debito. Un’altra differenza spesso citata è che il debito pubblico giapponese è, in buona parte, in mano ai piccoli risparmiatori giapponesi; mentre, nel caso dei debiti di altri Stati, esso è per lo più detenuto da banche, e per di più in grandi stock, in enormi ammontari. Che sia questa la grande differenza, dunque? E cioè che un risparmiatore non può e non vuole speculare, mentre una banca, magari straniera, di fronte ad una quota consistente del debito di un Stato potrebbe anche pensarci?

Un fatto è assodato: tutti i Paesi dell’Unione europea hanno parti cospicue del debito pubblico in banche straniere. Facciamo l’esempio della Grecia: circa 75mld di euro in banche francesi e circa 45mld in banche tedesche. Possiamo ora chiederci per quale motivo una banca dovrebbe comprare il debito di un altro Stato. Una risposta plausibile è che un debito ha un interesse, cioè cresce: in altri termini, è un guadagno che aumenta semplicemente perché passa il tempo –il meccanismo più vecchio del mondo, ma che non smette, a ben vedere, di stupire per la sua perversità. Dunque le banche ci guadagnano nella misura in cui è garantito loro un interesse che deve essere pagato. Chiarissimo, no?
Se vogliamo tirare le somme fin qui, sembra proprio che un debito pubblico e/o un deficit alti non sono di per sé dei buoni motivi per i quali uno Stato dovrebbe rischiare la bancarotta; e il Giappone è lì a ricordarci questo.

Ma non è finita qui, perché ancora non abbiamo fatto alcuna menzione dei recenti prodotti dell’alta finanza e di come possano influenzare questi meccanismi di cui abbiamo finora parlato. Viene quindi la volta di parlare dei Cds (Credit Default Swap).  Si tratta di contratti decisamente intricati e fino a qualche tempo fa pressoché sconosciuti, ma di cui si parla sempre di più in questo periodo travagliato. Riproduco qui di sotto parte di un articolo scritto qualche giorno fa:

“[I Cds] sono stati il tema di una interessantissima puntata di Report, “Speculando s’impara” del 8/04/2008. Detto in poche parole: un ente pubblico, come uno Stato, può decidere di assicurare il proprio debito con una banca, una operazione che potrebbe anche essere definita una copertura dalla variazione dei tassi-una cosa complicatissima! Questa assicurazione consiste nei Cds, per l’appunto, i quali, oltre ad avere un costo implicito per chi decide di avvalersene, possono essere acquistati e scambiati da chiunque. I Cds circolano nel cosiddetto mercato Over the counter  che, tradotto, significa che si tratta di titoli che non figurano nei listini di borsa, e possono quindi assumere i valori più diversi, perché legati solo alla dinamica della domanda/offerta. Aggiungiamo adesso un altro particolare rilevante:
“è interessante notare che al 30 settembre 2009, negli Stati Uniti, il 96% dei contratti swap (in cui sono ricompresi i Cds) era intermediato (come fa peraltro notare il blog IcebergFinanza) da solo cinque banche: JpMorgan, Bank of America, Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup. Il dato, pubblicato dall'Office of the comptroller of the currency, è riferito ad un valore nominale di oltre 172 triliardi di dollari.”(“Debito statale e solvibilità, la speculazione spinge i Cds”, di Vittorio Carlini da Il Sole 24ore del 8/2/2010)
Come si specula con i Cds, titoli per loro natura così volatili? Non è difficile immaginarlo. Facciamo un esempio di fantasia: poniamo che la Grecia venda parti cospicue del proprio debito a una banca, diciamo la Goldman Sachs, che in questo momento è sotto processo da parte del Senato americano e marcata stretta dalla SEC (organismo di controllo della borsa di Wall Strett); la banca in questione si fa pagare delle commissioni per gestire e vendere un debito pubblico avendone acquisito, al contempo, molte informazioni; diciamo poi che la stessa banca detiene anche i Cds sul debito greco. Il valore dei Cds  sale tanto più, quanto più probabile e imminente è l’insolvibilità o default, come si dice: cioè che questa assicurazione venga pagata. In altri termini, se Tizio ha l’assicurazione sulla macchina di Caio comprata a 10 –sembra assurdo, ma questi sono i termini della questione!-, e ci vuole speculare, allora avrà tutto l’interesse che il mercato creda che è molto più probabile di quanto non si ritenesse in precedenza  che la macchina di Caio prenderà fuoco. Il valore dell’assicurazione salirà, perché sarà più probabile che l’evento contro cui ci si è assicurati accada; allora Tizio si ritroverà in mano la possibilità di vendere [a Sempronio] magari a 50 l’assicurazione che aveva comprato a 10. Ora, il punto è che, se la Goldman Sachs avesse voluto speculare sulla situazione della Grecia, avrebbe potuto farlo in ragione delle informazioni sul debito e della gestione dei Cds ad esso correlata. Ovviamente non è dato sapere se questa ipotesi ha un effettivo riscontro, ma possiamo dire che è avvenuto quanto segue: la Grecia e la Goldman Sachs sono entrati in rapporti nel 2002; la crisi finanziaria greca ha fatto schizzare alle stelle i Cds, e complimenti a chi ci ha guadagnato un bel po’.”

Su questi derivati, i Cds in special modo, si è acceso un dibattito: da una parte, visto che si tratta di assicurazioni, si ritiene che siano un fattore di stabilità e di garanzia contro possibili default; dall’altra si schierano coloro che ritengono che tali titoli abbiano dato il viatico a folli speculazioni, in grado di mettere in serie difficoltà l’affidabilità e la tenuta degli Stati. Tra l’altro, ultimamente il mercato sembra confermare una regola: più uno Stato sta male e più è probabile che starà ancora peggio. Cerchiamo di spiegarci: esistono le agenzie di rating che danno dei veri e propri voti alle economie degli Stati. Sulla base di queste valutazioni vengono presi in considerazione diversi indici, tra cui anche il valore dei Cds. Ma perché un brutto voto può complicare la vita a uno Stato? Intanto il mercato comincia ad avere meno fiducia nei confronti dello Stato e chiede qualcosina di più. I bond (o obbligazioni), ad esempio, sono dei titoli di Stato che vengono venduti al fine di reperire soldi contanti, liquidità, e che vengono ripagati alla scadenza degli stessi con l’interesse. Ora, i bond tedeschi si attestano intorno a un interesse del 3%; vengono ormai presi come riferimento rispetto ai bond degli altri Stati, perché –si sa- la Germania è una roccia, tutti vi ripongono piena fiducia, e i tassi di interesse sono bassi. Che succede, invece, a paesi che non avrebbero la stessa solidità? Vendono  bond a tassi più alti per renderli più appettibili. Ma non è tutto. Qualche giorno fa (27/04/2010) l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha abbassato il rating (la valutazione) della Grecia con outlook (o meglio, prospettiva) negativo e i suoi bond sono schizzati alle stelle: i bond con scadenza biennale sono arrivati a toccare un interesse del 20% e quelli decennali del 10%, il che è per il Paese ellenico assolutamente insostenibile! Quindi, i tassi di interesse dei bond cambiano anche dopo che sono stati emessi e, quanto più salgono, tanto più mettono in difficoltà i pagamenti, finendo col prospettare il default come l’esito sempre più probabile. Tutto collegato. In questo senso possiamo dire che nel mercato attuale, se stai male, sei destinato a stare peggio.
Ma torniamo ai Cds e ai cosiddetti derivati. Su la Repubblica, “Affari & Finanza” del 3/05/2010 si leggono delle cose davvero interessanti nell’ articolo “Cds in bilico tra arbitri del mercato e speculatori”. Oltre al fatto che c’è chi li condanna e chi li difende, apprendiamo un dato a dir poco sconcertante:

“ “I Cds hanno una loro importante funzione in termini di conoscenza, semmai bisogna renderli più trasparenti. Il mercato dei derivati vale dodici volte il Pil mondiale, qualcosa come 600 trilioni di dollari. Il 90% di queste contrattazioni avviene al di fuori dei mercati regolamentati”, afferma Giorgio De Felice, capo economista di Intesa San Paolo”

Secondo De Felice la soluzione consisterebbe in una maggiore trasparenza nella compravendita. Tutto qua. Il mio senso comune mi induce invece a pensare che, se circolano in un mercato over the counter derivati per un valore nominale (o fittizio) di 600.000.000.000.000 -scritto così fa più effetto- di dollari americani, che corrispondono a dodici (!) volte la ricchezza prodotta dal mondo intero ogni anno, forse è il caso di fermarsi un attimo per capire di che si tratta. Prima di procedere col nostro ragionamento, decisi come siamo a fare delle considerazioni su queste cifre astronomiche, vediamo un po’ di chiarirci il termine bolla speculativa.

Prendo la definizione da  www.finanziamenti-tutti.com, ma la si poteva prendere un po’ ovunque:

“ Viene definita una bolla speculativa l'aumento ingiustificato ed esagerato dei prezzi, soprattutto riguardo al mercato finanziario, cioè ai prezzi di azioni e obbligazioni e ai giochi di borsa, ma accade anche che esso venga correlato ai beni materiali e delle risorse più in generale. La crescita immotivata, in una bolla speculativa, appare ingiustificata e slegata da ogni principio razionale, e soprattutto non correlata dal valore del materiale indicato […]. La bolla ha come caratteristica principale quella di ingigantire l'entusiasmo attorno ad essa, fino a raggiungere una situazione di tracollo.
La bolla infatti propone facili ed enormi guadagni, e gli investitori sono attratti più che mai dalla possibilità.
In un primo momento per l'appunto il guadagno appare immediato e costante: questa è la fase d'ascesa della bolla, dove l'arrivo di persone richiama l'arrivo di altre persone. In questa maniera i ricavi aumentano esponenzialmente, almeno fino a quando persone continuano ad investire nell'affare. Ma ad un certo punto si arriva ad una nuova situazione, quella in cui i dubbi e l'insicurezza a proposito di un guadagno perenne vanno scemando. E in questa maniera si arriva allo scoppio della bolla: un periodo di panico generale dove ognuno cerca di poter vendere le proprie azioni, conscio di un crollo totale dei prezzi.”

Il solito senso comune qui mi dice che questo mercato di derivati, di cui una parte cospicua è costituita dai Cds, sembra avere proprio tutte le caratteristiche di una “bolla finanziaria”; una bolla che ha raggiunto dodici volte il Pil mondiale. E se dovesse scoppiare, come fanno tutte le bolle? Diciamo che il mercato dei Cds in questi ultimi tempi sta crescendo a dismisura per via dei tanti fallimenti annunciati o imminenti degli Stati. E il loro valore crescerà fino a quando il soggetto che assicurano non fallirà. Ecco lo scoppio: dunque lo Stato dichiara la bancarotta; la banca assicurante paga questi Cds -oppure no, perché fa un altro gioco dei suoi (siamo nel campo delle ipotesi)-; la stessa banca, se ha voluto specularci, nel frattempo ha fatto bei soldi; altri speculatori hanno fatto anche loro dei buoni affari; milioni di persone perdono tutto o quasi e si ritrovano in un paese azzerato e nel caos. Altro spunto possibile: che il valore di questi Cds possa crescere a tal punto da superare persino il valore che verrebbe corrisposto in caso di fallimento? Cioè che un Cds, che inizialmente vale 1 e che assicura un bene –la solita macchina- che vale 100, possa crescere così tanto da valere 300? Il che significherebbe che la banca che fosse riuscita a vendere a 300 l’assicurazione che valeva 1 ci guadagna comunque, anche dovendo pagare l’assicurazione per il valore di 100. Ma si tratta di un caso di fantasia e del tutto ipotetico. Certo, però, questo mercato di derivati di 600 trilioni di dollari, valore altissimo e,possibilmente, gonfiatissimo, deve essere arrivato in qualche modo ai suddetti livelli “slegati da ogni principio razionale”!

Io ritengo che se in questo momento sembra che, uno dopo l’altro, gli Stati siano in affanno e rischino di fallire, ciò non è dovuto alla fragilità dell’economia -saremmo in piena ripresa-, e neanche a debito pubblico e deficit alti –vedi Giappone- , ma perché un certo mondo della finanza con i debiti e con i fallimenti ci fa un sacco di soldi.

Che accadrà? Ho trovato una interessante affermazione di certo Ludwig Von Mises (1881-1973), economista austriaco che ha lavorato per lo più negli States, che dice:

 "Non c'è modo di evitare il collasso finale di un boom indotto da un'espansione creditizia. La scelta è solo se la crisi debba avvenire prima come risultato dell'abbandono volontario di un'ulteriore espansione del debito o più tardi con la totale catastrofe del sistema monetario coinvolto"

Ammetiamo pure che le cose stiano così. Quale sarebbe una possibile soluzione? Forse l’azzeramento in tronco del debito pubblico e la messa al bando dei Cds e dei derivati in generale. Significherebbe che gli Stati darebbero il ben servito ai creditori, i quali, dopo tanti interessi incassati e dopo tante speculazioni andate a buon fine, pagherebbero, una volta tanto, di tasca loro. Significherebbe fare “sgonfiare” la bolla senza che a pagarne le conseguenze siano gli Stati e le persone, per ritornare all’ economia reale fatta di lavoro vero e non di giochi speculativi, capaci di fare collassare il sistema in nome del dio denaro. Ma c’è una notizia datata  4 maggio 2010 che solo pochi giornali hanno diffuso e che si trova, per esempio, nel Bloomberg business  (www.businessweek.com/news/2010-05-04/merkel-s-coalition-calls-for-eu-orderly-defaults-update1-.html). In due parole, il cancelliere Angela Merkel starebbe studiando la possibilità per uno Stato dell’Unione europea di dichiarare lo stato “d’insolvenza ordinaria”, i cui risvolti –devo dire- non mi sono chiari. Sembrerebbe un modo per ripartire le spese di una ristrutturazione del debito tra creditori e i contribuenti dello Stato in questione: in soldoni, stavolta non sarebbe soltanto il popolo contribuente a pagare il conto, ma anche chi detiene il debito pubblico -i creditori, per l’appunto.
A motivare una mossa di questo tipo sarebbe la concreta possibilità di evitare questo inutile e fallimentare prestito alla Grecia, oneroso per gli Stati membri dell’Unione europea –ancora più oneroso per la Grecia nella fase di restituzione, visto il tasso decisamente elevato -  e, ancora, di bloccare i brutti tiri della speculazione. Chissà.

A me pare chiaro che, se le istituzioni non si muoveranno in modo drastico e repentino contro il mondo della speculazione finanziaria, per come stanno le cose oggi la Grecia fallisce, e con lei altri Paesi europei, con ripercussioni pesanti per tutte le altre economie. In altre parole, si è arrivati al punto limite in cui, o la politica ammette a se stessa che la speculazione finanziaria, che crea guadagni dal nulla e che fa un “servizio” agli Stati, perché ne alza artificiosamente il Pil, minaccia l’esistenza degli Stati stessi; o la bolla scoppia con conseguenze imprevedibili e incontrollabili.

Quale che sia l’esito di questa situazione, torniamo adesso al motivo per cui sto scrivendo questo articolo di opinione. Vedendo la piega che sta prendendo la stabilità dell’Europa, mi sono fatto l’altra notte una domanda: se succede che, una dopo l’altra, le economie degli Stati europei crollano, cosa penseranno di questa grande catastrofe le persone coinvolte? Che è colpa dei Greci, che ci hanno “contagiati”? Dei Tedeschi, che hanno esitato a dare il prestito? Degli Spagnoli? Dei Portoghesi? O di qualche altro popolo ancora? 

Io spero che chi legge questo articolo, come me, ritenga che la colpa di tutto ciò sarebbe di qualche politico corrotto o avventato e del mondo della finanza che specula su questa crisi, probabilmente indotta.
Credo in quello che sto scrivendo, e credo di essere arrivato a qualche conclusione, a una maggiore approssimazione alla verità rispetto a quella che sento ai telegiornali.

Non venga in mente a nessuno di dare la colpa a un popolo, sia esso greco, tedesco o americano. E se qualcuno lo fa, spieghiamogli perché si sbaglia. Per questo è compito di ognuno informare quante più persone possibile. Facciamo in modo che l’odio tra i popoli non alzi la cresta.  

Palermo, 7/5/2010

domenica 25 novembre 2012

La democrazia di Kafka

Lo Stato è fatto dal corpo dei cittadini, anzi, lo Stato è il corpo dei cittadini. Ciò è ancora più valido ove si tratti di uno Stato a regime democratico.
Un  paese democratico è tale nella misura in cui i suoi cittadini possiedono ed esercitano il diritto di voto, ma questo non è del tutto vero. O meglio: non è solo questo.
In un regime democratico l'esistenza e la tenuta dello Stato sono nelle mani dei cittadini che ne fanno parte. Ne segue che i cittadini esercitano la democrazia nel momento in cui tutelano lo Stato stesso da ciò che lo possa danneggiare. Ma attenzione: non ci stiamo riferendo semplicemente ad eventuali minacce esterne, quali guerre, embarghi o simili. A rigor di logica ogni violazione della legge che colpisca anche nella maniera più lieve il cittadino è da considerarsi una offesa diretta allo Stato stesso, dal momento che istituzione e individui sono così intimamente legati.
Il cittadino dunque esercita il suo diritto democratico nel momento in cui si difende ricorrendo al potere giudiziario, qualora sia vittima di un soppruso; e l'esito di una tale vicenda ha un peso che va al di là della dimensione individuale, ma investe indirettamente anche lo Stato e così tutti i cittadini.
Se infatti il crimine commesso non viene sanzionato, ciò non farà che aumentare l'impunità e di fatto incoraggiare l'attività criminale indebolendo lo Stato.
Al fine di preservarsi dall'ingiustizia lo Stato, e soprattutto lo Stato democratico, deve dotarsi di un apparato giudiziario tale da mettere il cittadino in condizione di difendersi senza temere ritorsioni, costi processuali elevati e tempi lunghi. Qualora ciò non accadesse, come per altro accade nella maggioranza delle democrazie nel mondo, lo Stato è più debole, perchè il corpo cittadino non è disposto a rischiare di cercare giustizia a costo della propria incolumità, del proprio patrimonio e del proprio tempo.
Quando ricorrere alla giustizia è difficile e foriero di fastidi se non addirittura di pericoli, i cittadini diventano più timorosi e via via più tolleranti di fronte all'ingiustizia.
Se la privazione del diritto di voto è segno chiaro della mancanza di democrazia, altrettanto lo è un sistema giudiziario che non funziona come dovrebbe.

lunedì 29 ottobre 2012

Abbozzo di una proposta di legge



 La proposta che segue potrebbe costituire una soluzione a due problemi che interessano coltivatori diretti e consumatori. Lo scopo è quello di rendere l'agricoltura una attività reddizia, dal momento che allo stato attuale la maggior parte degli agricoltori lavora in perdita, o comunque senza quasi alcun profitto.


Vista la spietata concorrenza dei prodotti agricoli che giungono in Italia da paesi europei ma soprattutto non comunitari, i produttori italiani, a fronte di spese assai elevate, sono costretti a vendere ai grossisti a prezzi stracciati (un esempio sono i limoni, pagati a 7 centesimi al chilogrammo), pena l'esclusione dai mercati.

Come risolvere questa incresciosa tendenza che sta pian piano spegnendo questa attività così importante nell'economia italiana?

L'idea è molto semplice: il comune o qualunque altra istituzione pubblica si assume il compito di fondare una società di compravendita di prodotti agricoli locali, che funga quindi da enorme grossista e porti il frutto del lavoro agricolo nel mercato dei consumatori.
Tale società avrebbe due scopi pricipali:

Il primo è quello di presentare dei bilanci in attivo, pena l'azzeramento dell'amministrazione. Si tratta di una condizione che riuscirebbe evitare la creazione di enti inutili e per di più dispendiosi, e di portare soldi alle casse dell'istituzione pubblica, cui fa capo.

Il secondo scopo è quello di comprare dai produttori a prezzi fissati da esperti, che di fatto rendano l'agricoltura una attività redditizia, per lo meno nell' area in cui opererebbe tale società.
Un provvedimento di questo tipo finirebbe per innescare un meccanismo virtuoso di rivalutazione della produzione agricola locale e a chilometro zero, sempre più richiesta dai consumatori più esigenti in fatto di rispetto dell'ambiente.

Una simile idea può essere applicata anche ad un altro settore particolarmente caro a quasi tutti i cittadini, e cioè il carburante per le automobili.

Allo stesso modo infatti l'istituzione pubblica dovrebbe fondare una società di distributori di carburante, in grado di abbattere i prezzi gonfiati dalla speculazione; costringendo di conseguenza anche le altre maggiori compagnie ad abbassare le tariffe. Una società di questo tipo, oltre a fare un enorme servizio alla cittadinanza già oppressa da molte tasse inique, dirette e indirette, fatturebbe in breve tempo così tanti soldi, da portare in attivo il bilancio comunale ( anche il più disastrato!).

  

domenica 23 settembre 2012

Come in una palude

Dove prevalgano la violenza e la prevaricazione, lì imperano l'ignoranza, la mancanza di fantasia e la mediocrità.

E poi al Nord sono freddi...

Mi va di fare qualche considerazione sulla mia terra di origine, la Sicilia, ma fore risulta più appropriato dire della mia città, Palermo, la quale presenta senza dubbio delle caratteristiche decisamente proprie. Come credo la maggior parte dei palermitani, è praticamente da sempre che mi confronto e mi scontro con la dura realtà della convivenza con i miei concittadini, la quale sembra essere costellata più di episodi negativi che positivi. O meglio, gli episodi negativi riescono ad avere una presa molto maggiore nella memoria e finiscono col formare una collezioni di immagini che sanno di verdetto finale senza appello, anzi suffragato di continuo da conferme: "Che città di m... che è Palermo! Quanto mi fanno schifo i palermitani! Non c'è possibilità di riscatto per questa città!" ecc. ecc.

Invero, chiunque abbia vissuto anche per brevi periodi a Palermo è certamente incorso almeno una volta in un sentimento di rabbia e delusione di fronte a una situazione spiacevole che possiamo generalizzare come segue: " Perché questo barbaro - certamente si può declinare eventualmente anche al plurale- ha dovuto agire in questo modo, arrecando un danno a me, alla sua dignità e alla nostra citta'?"
All'origine di una amara considerazione come questa si può trovare di tutto: carta gettata a terra, manovra automobilistica azzardata e inutile, minacce di qualunque tipo, macchina rigata, brutale violenza, schiamazzo sbracato e prolungato, superamento della fila alla posta (i numeretti non hanno risolto il problema), furto, furto con arma bianca, scippo, scippo in motorino, incendio dei rifiuti, produzione spropositata di rifiuti, lamentele a voce alta anche lì dove non c'è nulla da lamentarsi, e poi prevaricazioni varie.
Stupisce quanto poca sia la distanza a cui un palermitano che ti rovina la giornata riesca ad arrivare da te. Stupisce come la totale mancanza di rispetto per il prossimo si dispieghi talvolta davanti ai tuoi occhi con una tale rapidità e inspiegabilità da non farti rendere nemmeno conto di quello che sta succedendo.

Insomma, Palermo, I love you. E allora che si fa? Si accetta e si tira dritto. A volte si tenterà di ragionare con l' "inquietatore" di turno, a volte si farà finta di niente e si tirerà dritto per la propria strada; ma il risultato sarà comunque che di tanto in tanto si avrà a che fare con qualcosa di spiacevole.
La totalità di chi emigra verso luoghi più civili e torna a Palermo solo per un bagnetto sembra incasellarsi in due sole categorie: quelli che non rimpiangono Palermo né quando sono a Palermo, né quando sono nella loro attuale città di residenza; e quelli - forse peggiori- che decantano le lodi di questa magnifica città quando sono all' "estero", e allora si sentono siciliani veri, e poi invece non fanno che dire peste e corna quando tornano per qualche tempo dalla famiglia.

Le mie considerazioni su quello che sarebbe giusto fare per dare una scossa positiva ai luoghi in cui viviamo partono proprio da qui. Immaginiamoci adesso un emigrato siciliano nel paradiso terrestre, a Berlino per esempio, e immaginiamo che si trovi benissimo e che ne sia entusiasta. Col tempo si sentirà parte integrante di questa città, sarà a tutti gli effetti ein Berliner; ma che succede quando magari torna a fare una capatina dai vecchi amici nella città di Santa Rosalia?
"Ah, che disordine, che caos, quale totale mancanza di civiltà! Lì dove vivo io certe cose non succedono e non potrebbero mai succedere!"
Ma è davvero così? Cioè, è proprio sicuro che un giorno Berlino non si possa trasformare in una città assolutamente incivile? La domanda da porre sul serio è il realtà la seguente: cosa rende una città o un paese civile? Cosa impedisce che un luogo veda peggiorare le condizioni di vita dei suoi abitanti, ma al contrario cosa permette che queste continuino a migliorare?
In ultima analisi sono gli stessi abitanti, gli stessi cittadini. E dimostrerò che in Sicilia le condizioni di vita sono spesso così scadenti perchè in ultima istanza siamo dei gran cacasotto. Sì, proprio così: dei gran cacasotto.
Ipotizziamo ancora questo nuovo berlinese. Che accadrebbe, se un giorno fosse aggredito, o se vedesse qualcuno buttare della carta a terra, o qualcuno rubare, fare un torto a un'altra persona, chiedergli il pizzo nel caso in cui avesse una attività commerciale, e così via?
Io posso assicurare che il tedesco medio, per carattere e per formazione, non si fa mettere i piedi in testa da nessuno, e tiene molto di più alla propria onorabilità e dignità che alla propria sopravvivenza; e che quindi nei casi sommariamente ipotizzati, il tedesco reagisce a costo di rischiare controreazioni possibilmente dannose per lui . Fiducioso in parte nella macchina dello Stato e in parte nei propri mezzi, farà il possibile per venire a capo di un torto subito, o per far rispettare le regole anche agli altri.
E il siciliano emigrato invece? Secondo me, non farebbe proprio nulla, troppo timoroso di rischiare chissà quale ripercussione su di sé. Ne segue che nell'ipotesi di una Berlino civilissima, abitata però da cittadini poco solerti e indisponibili a preservarla a ogni costo, si assisterebbe a un lento ma inesorabile insorgere di comportamenti poco civili, barbari. Nel volgere di poco tempo, una città come Berlino diventerebbe un posto meno sicuro, meno rispettato, dove le cose non funzionano, e in cui parte dei cittadini ritiene di godere dell'impunità, qualora assuma atteggiamenti non conformi alle regole del vivere comune.

E adesso pensiamo al fatto che noi (e nemmeno tutti) chiamiamo eroi quelli che in Sicilia si sono comportati da normali e coraggiosi cittadini, dopo che sono lasciati soli a farsi ammazzare dalla Mafia.
Si tratta solo dell'esempio più estremo di una contraddizione che con mille forme diverse si perpetua ogni giorno nelle nostre città: l'indisponibilità a rischiare qualcosa per ottenere la giustizia; pensare che val bene scendere a compromessi con il barbaro di turno piuttosto che affrontarlo apertamente.
Siamo un popolo che ancora deve capire che cosa significa la dignità. Solo allora ci libereremo dalla barbarie.

giovedì 9 agosto 2012

Considerazioni sulla gestione della emotivita'



Quando il singolo affronta da solo i propri sentimenti, ne derivano conseguenze non solo sulla vita personale ma anche sociologiche, capaci di giocare un ruolo importante negli avvenimenti storici.
Nella storia dell’uomo si sono succedute epoche in cui la gestione dei sentimenti dell’individuo ha assunto forme radicalmente diverse, le quali possono essere sintetizzate in linea di massima in due tendenze opposte: da un lato, una compartecipazione e una regolamentazione da parte della comunita’ dei sentimenti dei suoi componenti; dall’altro, si assiste all’isolamento del singolo inserito in una comunita’ che si disinteressa del tutto della vita sentimentale.
Nel primo caso momenti di felicita’ e di tristezza sono come codificati dalla societa’ e fanno parte di uno spettro comune di possibilita’, a cui il singolo e’ abituato via via che cresce e acquisisce coscienza nella societa’ stessa. Egli dunque sa che cio’ che prova di volta in volta appartiene a un bacino di esperienze che altri prima di lui hanno sperimentato con successo. E non solo: egli sa che anche nel momento in cui attraversa una difficolta’ sentimentale non e’ solo, sia perche’ altri insieme a lui possibilmente nello stesso periodo si trovano nella medesima condizione, sia perche’ a portata di mano vi sono dei modi codificati anch’essi per superare tali turbolenze interiori.
Nel secondo caso invece l’individuo e’ immerso in un contesto sordo alle sue risa e ai suoi pianti, e ogni esperienza emotiva, anche quella fatta grazie e insieme ad altri individui, diventa un fatto assolutamente personale e va a comporre pezzo per pezzo un puzzle, di cui si ha di volta in volta solo l’impressione della immagine che assumera’ alla fine. Allorche’ i sentimenti non sono codificati dalla societa’ e tantomeno lo sono gli espedienti per affrontarli, si assiste a un mutamento radicale nella vita dell’uomo, il quale ha due facce ben distinte. Nel momento in cui l’uomo e’ solo scopre nei suoi sentimenti, di felicita’ o di tristezza che siano, il sublime interiore, una novita’ profondissima che sa pervadere di un piacere inaspettato colui che lo prova. Ma d’altro canto la vita in un contesto simile puo’ apparire come un labirinto, un continuo errare senza una meta’ ben definita. L’indivuo si ritrova cosi’ ad accumulare esperienze le piu’ varie, e oscilla periodicamente tra le sensazioni (probabilmente entrambe fallaci), ora di seguire una direzione ben precisa, ora di sentirsi sperduto in un punto qualsiasi a cui e’ arrivato attraverso un tragitto del tutto casuale.

Non e’ compito semplice individuare le ragioni alla base di tali mutamenti nella gestione della emotivita’; e tuttavia, ripercorrendo per sommi capi la storia europea da Omero ai giorni nostri, non risulta difficile rintracciare in tale storia l’alternanza delle tendenze di cui sopra.
La prima cesura va collocata ad Atene durante la Pentecontaetia di Pericle ( periodo di cinquanta anni che vanno dal 479 a. C., vittoria dei Greci contro i Persiani di Serse, al 431 a. C., inizio della Guerra del Peloponneso che vide contrapposte le potenze di Atene e Sparta). L’epoca precedente testimonia con la sua letteratura, termine da intendere con il suo senso piu’ ampio (poesia, prosa, testi scietifici ecc.), una societa’ che rispecchia le caratteristiche della comunita’ in cui l’emotivita’ e’ un affare collettivo. Anche le inquietudini che al lettore moderno sono date leggere nella lirica del VI e del primo V secolo (vedi, ad esempio, Saffo e Anacreonte) sono in realta’ stati d’animo codificati. Cio’ significa che l’ambiente cui gli autori appartenevano non veniva mai sorpreso dalle tematiche trattate: il personale si rispecchiava nel collettivo come un ciclo continuo. Motivi di apprezzamento erano piuttosto il modo in cui il poeta dava forma artistica a tali coinvolgimenti sentimentali. Ma al di la’ di questo, fino all’epoca dell’Atene di Pericle, la societa’ delle poleis greche si presenta quantomai granitica e compatta, e all’individualismo e’ sempre sottesa la comunita’. E’ illuminante il fatto che la leggenda circa il suicidio di Saffo, disperata per un amore non corrisposto per il marinaio Faone, sia una invenzione di eta’ ellenistica, un periodo storico che ha assistito al predominio della seconda tendenza nella gestione della emotivita’. Puo’ uccidersi per amore solo colui che vive terribili esperienze sentimentali e che vien assalito da tali dubbi esistenziali, per i quali sente che nessuno e’ in grado di prestargli soccorso. Cio’ non figura tra le possibilita’ in una societa’ che pratica la compartecipazione totale dei moti interiori.
Del passaggio tra i due modi di vivere le emozioni e’ testimone anche la filosofia, che da indagine scientifica sulla natura (da Talete a Eraclito) si trasforma in indagine per l’uomo con i Sofisti , e poi con Socrate in ricerca sull’uomo, adesso pieno di incertezze su quello che sa, su chi e’ e sul posto che deve occupare.
E’ molto probabile che, non tanto la nascita, quanto il rapidissimo sviluppo della tragedia, il quale attraverso’ grosso modo la seconda meta’ del V secolo, sia dovuto essenzialmente a questa enorme novita’ nella vita del singolo. A meta’ tra evento religioso, dunque rito collettivo, ed espressione della sensibilita’ del tragediografo, il dramma offre agli spettatori la compartecipazione di forti tensioni interiori; costituisce una innovazione nel quadro dei generi letterari, che si propone il compito di equilibrare l’emotivita’ proprio attraverso una esperienza il piu’ condivisa possibile. Che l’ istituzione di feste in cui venivano rappresentate le tragedie fosse o no una scelta consapevole da parte della politica ateniese del tempo della sua funzione catartica, fatto sta che il teatro e’ gia’ con Sofocle ed Euripide espressione di laceranti inquietudini personali: per la prima volta all’interno delle opere che ci sono giunte di un unico autore si riscontra con evidenza una evoluzione del pensiero e della poetica che abbraccia tutto l’arco del periodo di attivita’.
Il traviamento interiore e’ sinonimo di percorsi imprevisti i cui esiti sono molteplici, talvolta originali e inediti. Costituisce dunque il terreno piu’ fertile per la novita’ e l’innovazione in qualunque campo umano, sia esso scienza, arte o tecnica. Non e’ un caso che ad Atene si assista nel V secolo a una vera e propria esplosione in tutti in domini dell’agire umano, e a una irrestitibile ascesa del singolo come personalita’ variegata, sfaccetata e ben riconoscibile dal contesto in cui opera.
Nel mondo greco questa epoca continuera’ assumendo diverse sfaccettature attraverso tutta l’eta’ ellenistica e romana fino all’avvento e al progressivo attecchimento capillare del cristianesimo. La religione cristiana offre dapprima risposte alle domande di uomini inquieti che non sanno dove e’ la verita’. Col tempo le stesse domande non verranno nemmeno piu’ poste per tutto il periodo medievale.

Un discorso analogo vale per il mondo romano. La cesura stavolta va rintracciata nel I secolo a. C., il periodo in cui la granitica societa’ romana, dopo avere imposto il proprio dominio indiscusso in praticamente tutto il Mediterraneo, subisce il fascino irresistibile della cultura greca, con la sua letteratura, la scienza e la filosofia, specie quella ellenistica, e cioe’ epicureismo, stoicismo e, in minima parte, cinismo.
Ben inteso, l’influenza della Grecia nella vita culturale dei Romani prende avvio gia’ con Livio Andronico, liberto greco che ripropone l’ Odissea in latino e inaugura di fatto la letteratura latina sul finire del III secolo a. C.; e ancora di piu’ all’indomani della battaglia di Corinto nel 146 a. C. che sancisce la sottomissione della penisola ellenica al potere di Roma. Ma il contatto con le commedie di Menandro attraverso le riprese di Plauto e Terenzio, e con personaggi greci di rilevanza culturale che dimorarono a Roma, quali per esempio Polibio, importante storiografo, o il filosofo stoico Panezio, non potevano attecchire con immediatezza e nel profondo. Ci vollero una continuata esposizione ai lumi della produzione letteraria greca e una cinquantina d’anni piu’ o meno perche’ la societa’ romana metabolizzasse e facesse propria la grande varieta’ del pensiero ellenico. Questo fenomeno produsse a Roma il mutamento di cui sopra: l’individuo comincio’ a vedersi in un percorso che non si sapeva dove lo avrebbe portato. E’ l’epoca di enormi personalita’ come Cicerone, Cesare su tutti, che seppero imprimere una spinta considerevole nella storia di Roma antica. Prima abbiamo le imprese di una collettivita’ compatta al tempo delle tre guerre puniche, ora delle figure eccezionali tentano e talvolta riescono a imporre la propria volonta’ ai destini di un immenso impero.

Altra cesura fondamentale (l’ultima) a cui assistiamo in Europa e’ rintracciabile nel Medio Evo. Intorno alla seconda meta’ del 1200 in Italia un rapidissimo sviluppo delle citta’ e’ gia’ in uno stadio avanzato; da un periodo dominato da anonime comunita’ regolate dalla parrocchia, si passa gradualmente a un altro, in cui fanno la loro comparsa uomini con un volto e una loro personalita’ ben definita. Personaggi quali Guido Cavalcanti o Dante Alighieri sono solo tra gli esempi piu’ illustri di un’ epoca ricchissima di individui straordinari. Il Nord Italia in special modo si ritrova a dare una forma e uno spirito totalmente diverso alle influenze che venivano dalla Francia con i suoi cantari, e dalla Sicilia con la scuola che si formo’ attorno al re Federico II. Gli stati d’animo codificati di queste due letterature persero progressivamente il posto in favore degli erramenti del singolo, amorosi ed esistenziali.
Da allora l’Europa non ha abbandonato fino al giorno d’oggi questa tendenza nella gestione dell’emotivita’, anzi non ha fatto che accentuarla. L’uomo e’ solo con i suoi traviamenti, e le ricadute sono facilmente apprezzabili: l’umanita’ e’ diventata una instanbile fucina di idee e di innovazioni, con ritmi di lavoro sempre crescenti – si calcola che il progresso scientifico e tecnologico dell’ultimo secolo equivalga a quello registrato in tutto il periodo precedente.
E’ difficile immaginare se e come l’umanita’ ritornera’ nuovamente a condividere e ad affrontare in modo collettivo il mondo dei sentimenti. Sembrerebbe che fino ad adesso internet, che costituisce senz’altro la piu’ grande innovazione di tutti i tempi, non abbia operato nel senso di trasformare l’umanita’ in una comunita’ per come e’ intesa in queste pagine, cioe’ come gruppo umano che mette in compartecipazione la vita sentimentale. Stare a vedere piu’ in la’.

lunedì 6 agosto 2012

Che Noia...

Oggi ho terminato la lettura de Gli indifferenti di Alberto Moravia. Sono arrivato a pagina 131 di 300 e passa. Raramente mi è capitato di avere a che fare con una prosa più brutta e una storia più insignificante: non riesco a capacitarmi di come sia diventato una grande successo questo romanzo che è tutto fuorché sagace e penetrante. Viene presentato come impietosa critica alla borghesia, come un feroce atto di accusa a una mentalità imperante all'epoca. A me invece pare un testo di ben poca consistenza letteraria (basti solo l'aggettivazione sovrabbondante e disordinata) scritto da un ragazzo con un sussiego immenso. Insopportabile.

Essere modesti senza essere miseri

La coscienza della propria mediocrità si accompagna quasi sempre all'invidia per i successi altrui.

Perché il blog?

Ho deciso di aprire il mio blog, perché sento da tempo il bisogno di mettere per iscritto le mie idee e dargli una forma chiara e comprensibile. Il fatto di scrivere dei post che possono essere letti da gente che non conosco mi aiuterà a trarmi fuori dalla mia pigrizia senza fine. Mettere ordine alle proprie idee attraverso la scrittura è anche un modo per sentirsi produttivi: altra cosa di cui sento quanto mai la mancanza.