lunedì 26 novembre 2012

A proposito di un paese che mi è tanto caro




Posto qui di seguito un articolo abbastanza lungo che ho scritto più di due anni fa sulla crisi debitoria greca


CRISI GRECA, CRISI DI TUTTI
Riflessioni di un profano

Quanto sta succedendo in Europa da qualche mese a questa parte è di portata veramente colossale, a tal punto che è proprio il caso di farsi un quadro della situazione, dal momento che ci riguarda da molto da vicino. Analizzare i meccanismi e le dinamiche di ciò che ci accade serve anche per guardarsi dall’ attribuire colpe e responsabilità a chi, magari, non c’entra niente o quasi.
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Mettiamo preliminarmente sul tavolo alcuni dati e facciamo quattro conti e alcune considerazioni: sappiamo che il debito pubblico è quanto uno Stato deve restituire ai suoi creditori; sappiamo anche che, piuttosto che la cifra, il debito pubblico si suole indicare in percentuale rispetto alla ricchezza prodotta ogni anno dallo Stato stesso, il cosiddetto PIL (Prodotto Interno Lordo). Sappiamo anche che un altro dato interessante è il deficit, cioè quanto uno Stato spende in un anno, e che anche questo dato viene espresso in percentuale sulla base del Pil. Bene, si dice che la Grecia sia in difficoltà perché ha un debito pubblico alto –si parla del 129% per un ammontare di più di 300mld di euro-, e perché ha registrato un deficit alto, pari al 14% del Pil. Ancora, si dice che Portogallo e Spagna comincino a essere nei guai e stiano rischiando; eppure il loro debito pubblico è ben al di sotto del fatidico 100%, specie per la Spagna. Si dice che a generare incertezza sulla loro tenuta finanziaria sarebbe il deficit di quest’anno –quello della Spagna sarebbe superiore al 10% del Pil. Quindi, a guardare questi dati verrebbe da dire che avere un debito pubblico e/o un deficit elevati sia un male per l’affidabilità dell’economia di un Paese. Ma attenzione! Prendiamo l’esempio del Giappone: i numeri sul suo debito pubblico oscillano – mi dispiace non fornire dati certi, ma il punto è che, ovunque ci si volga, i numeri sono sempre oscillanti- dal 192% al 220% del Pil! Cosa? Come è possibile che il Giappone non sia già fallito da un pezzo? Forse, dunque, dobbiamo rivedere l’affermazione di poco fa circa la pericolosità che un debito e un deficit alti rappresentano per uno Stato. Dove starebbe, allora, la differenza tra la Grecia e il Giappone?

Circolano tante letture di questo strano caso: per esempio, che in Giappone le tasse dirette e indirette sono basse e che, se ce ne fosse bisogno, potrebbero essere aumentate per pagare il debito. Un’altra differenza spesso citata è che il debito pubblico giapponese è, in buona parte, in mano ai piccoli risparmiatori giapponesi; mentre, nel caso dei debiti di altri Stati, esso è per lo più detenuto da banche, e per di più in grandi stock, in enormi ammontari. Che sia questa la grande differenza, dunque? E cioè che un risparmiatore non può e non vuole speculare, mentre una banca, magari straniera, di fronte ad una quota consistente del debito di un Stato potrebbe anche pensarci?

Un fatto è assodato: tutti i Paesi dell’Unione europea hanno parti cospicue del debito pubblico in banche straniere. Facciamo l’esempio della Grecia: circa 75mld di euro in banche francesi e circa 45mld in banche tedesche. Possiamo ora chiederci per quale motivo una banca dovrebbe comprare il debito di un altro Stato. Una risposta plausibile è che un debito ha un interesse, cioè cresce: in altri termini, è un guadagno che aumenta semplicemente perché passa il tempo –il meccanismo più vecchio del mondo, ma che non smette, a ben vedere, di stupire per la sua perversità. Dunque le banche ci guadagnano nella misura in cui è garantito loro un interesse che deve essere pagato. Chiarissimo, no?
Se vogliamo tirare le somme fin qui, sembra proprio che un debito pubblico e/o un deficit alti non sono di per sé dei buoni motivi per i quali uno Stato dovrebbe rischiare la bancarotta; e il Giappone è lì a ricordarci questo.

Ma non è finita qui, perché ancora non abbiamo fatto alcuna menzione dei recenti prodotti dell’alta finanza e di come possano influenzare questi meccanismi di cui abbiamo finora parlato. Viene quindi la volta di parlare dei Cds (Credit Default Swap).  Si tratta di contratti decisamente intricati e fino a qualche tempo fa pressoché sconosciuti, ma di cui si parla sempre di più in questo periodo travagliato. Riproduco qui di sotto parte di un articolo scritto qualche giorno fa:

“[I Cds] sono stati il tema di una interessantissima puntata di Report, “Speculando s’impara” del 8/04/2008. Detto in poche parole: un ente pubblico, come uno Stato, può decidere di assicurare il proprio debito con una banca, una operazione che potrebbe anche essere definita una copertura dalla variazione dei tassi-una cosa complicatissima! Questa assicurazione consiste nei Cds, per l’appunto, i quali, oltre ad avere un costo implicito per chi decide di avvalersene, possono essere acquistati e scambiati da chiunque. I Cds circolano nel cosiddetto mercato Over the counter  che, tradotto, significa che si tratta di titoli che non figurano nei listini di borsa, e possono quindi assumere i valori più diversi, perché legati solo alla dinamica della domanda/offerta. Aggiungiamo adesso un altro particolare rilevante:
“è interessante notare che al 30 settembre 2009, negli Stati Uniti, il 96% dei contratti swap (in cui sono ricompresi i Cds) era intermediato (come fa peraltro notare il blog IcebergFinanza) da solo cinque banche: JpMorgan, Bank of America, Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup. Il dato, pubblicato dall'Office of the comptroller of the currency, è riferito ad un valore nominale di oltre 172 triliardi di dollari.”(“Debito statale e solvibilità, la speculazione spinge i Cds”, di Vittorio Carlini da Il Sole 24ore del 8/2/2010)
Come si specula con i Cds, titoli per loro natura così volatili? Non è difficile immaginarlo. Facciamo un esempio di fantasia: poniamo che la Grecia venda parti cospicue del proprio debito a una banca, diciamo la Goldman Sachs, che in questo momento è sotto processo da parte del Senato americano e marcata stretta dalla SEC (organismo di controllo della borsa di Wall Strett); la banca in questione si fa pagare delle commissioni per gestire e vendere un debito pubblico avendone acquisito, al contempo, molte informazioni; diciamo poi che la stessa banca detiene anche i Cds sul debito greco. Il valore dei Cds  sale tanto più, quanto più probabile e imminente è l’insolvibilità o default, come si dice: cioè che questa assicurazione venga pagata. In altri termini, se Tizio ha l’assicurazione sulla macchina di Caio comprata a 10 –sembra assurdo, ma questi sono i termini della questione!-, e ci vuole speculare, allora avrà tutto l’interesse che il mercato creda che è molto più probabile di quanto non si ritenesse in precedenza  che la macchina di Caio prenderà fuoco. Il valore dell’assicurazione salirà, perché sarà più probabile che l’evento contro cui ci si è assicurati accada; allora Tizio si ritroverà in mano la possibilità di vendere [a Sempronio] magari a 50 l’assicurazione che aveva comprato a 10. Ora, il punto è che, se la Goldman Sachs avesse voluto speculare sulla situazione della Grecia, avrebbe potuto farlo in ragione delle informazioni sul debito e della gestione dei Cds ad esso correlata. Ovviamente non è dato sapere se questa ipotesi ha un effettivo riscontro, ma possiamo dire che è avvenuto quanto segue: la Grecia e la Goldman Sachs sono entrati in rapporti nel 2002; la crisi finanziaria greca ha fatto schizzare alle stelle i Cds, e complimenti a chi ci ha guadagnato un bel po’.”

Su questi derivati, i Cds in special modo, si è acceso un dibattito: da una parte, visto che si tratta di assicurazioni, si ritiene che siano un fattore di stabilità e di garanzia contro possibili default; dall’altra si schierano coloro che ritengono che tali titoli abbiano dato il viatico a folli speculazioni, in grado di mettere in serie difficoltà l’affidabilità e la tenuta degli Stati. Tra l’altro, ultimamente il mercato sembra confermare una regola: più uno Stato sta male e più è probabile che starà ancora peggio. Cerchiamo di spiegarci: esistono le agenzie di rating che danno dei veri e propri voti alle economie degli Stati. Sulla base di queste valutazioni vengono presi in considerazione diversi indici, tra cui anche il valore dei Cds. Ma perché un brutto voto può complicare la vita a uno Stato? Intanto il mercato comincia ad avere meno fiducia nei confronti dello Stato e chiede qualcosina di più. I bond (o obbligazioni), ad esempio, sono dei titoli di Stato che vengono venduti al fine di reperire soldi contanti, liquidità, e che vengono ripagati alla scadenza degli stessi con l’interesse. Ora, i bond tedeschi si attestano intorno a un interesse del 3%; vengono ormai presi come riferimento rispetto ai bond degli altri Stati, perché –si sa- la Germania è una roccia, tutti vi ripongono piena fiducia, e i tassi di interesse sono bassi. Che succede, invece, a paesi che non avrebbero la stessa solidità? Vendono  bond a tassi più alti per renderli più appettibili. Ma non è tutto. Qualche giorno fa (27/04/2010) l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha abbassato il rating (la valutazione) della Grecia con outlook (o meglio, prospettiva) negativo e i suoi bond sono schizzati alle stelle: i bond con scadenza biennale sono arrivati a toccare un interesse del 20% e quelli decennali del 10%, il che è per il Paese ellenico assolutamente insostenibile! Quindi, i tassi di interesse dei bond cambiano anche dopo che sono stati emessi e, quanto più salgono, tanto più mettono in difficoltà i pagamenti, finendo col prospettare il default come l’esito sempre più probabile. Tutto collegato. In questo senso possiamo dire che nel mercato attuale, se stai male, sei destinato a stare peggio.
Ma torniamo ai Cds e ai cosiddetti derivati. Su la Repubblica, “Affari & Finanza” del 3/05/2010 si leggono delle cose davvero interessanti nell’ articolo “Cds in bilico tra arbitri del mercato e speculatori”. Oltre al fatto che c’è chi li condanna e chi li difende, apprendiamo un dato a dir poco sconcertante:

“ “I Cds hanno una loro importante funzione in termini di conoscenza, semmai bisogna renderli più trasparenti. Il mercato dei derivati vale dodici volte il Pil mondiale, qualcosa come 600 trilioni di dollari. Il 90% di queste contrattazioni avviene al di fuori dei mercati regolamentati”, afferma Giorgio De Felice, capo economista di Intesa San Paolo”

Secondo De Felice la soluzione consisterebbe in una maggiore trasparenza nella compravendita. Tutto qua. Il mio senso comune mi induce invece a pensare che, se circolano in un mercato over the counter derivati per un valore nominale (o fittizio) di 600.000.000.000.000 -scritto così fa più effetto- di dollari americani, che corrispondono a dodici (!) volte la ricchezza prodotta dal mondo intero ogni anno, forse è il caso di fermarsi un attimo per capire di che si tratta. Prima di procedere col nostro ragionamento, decisi come siamo a fare delle considerazioni su queste cifre astronomiche, vediamo un po’ di chiarirci il termine bolla speculativa.

Prendo la definizione da  www.finanziamenti-tutti.com, ma la si poteva prendere un po’ ovunque:

“ Viene definita una bolla speculativa l'aumento ingiustificato ed esagerato dei prezzi, soprattutto riguardo al mercato finanziario, cioè ai prezzi di azioni e obbligazioni e ai giochi di borsa, ma accade anche che esso venga correlato ai beni materiali e delle risorse più in generale. La crescita immotivata, in una bolla speculativa, appare ingiustificata e slegata da ogni principio razionale, e soprattutto non correlata dal valore del materiale indicato […]. La bolla ha come caratteristica principale quella di ingigantire l'entusiasmo attorno ad essa, fino a raggiungere una situazione di tracollo.
La bolla infatti propone facili ed enormi guadagni, e gli investitori sono attratti più che mai dalla possibilità.
In un primo momento per l'appunto il guadagno appare immediato e costante: questa è la fase d'ascesa della bolla, dove l'arrivo di persone richiama l'arrivo di altre persone. In questa maniera i ricavi aumentano esponenzialmente, almeno fino a quando persone continuano ad investire nell'affare. Ma ad un certo punto si arriva ad una nuova situazione, quella in cui i dubbi e l'insicurezza a proposito di un guadagno perenne vanno scemando. E in questa maniera si arriva allo scoppio della bolla: un periodo di panico generale dove ognuno cerca di poter vendere le proprie azioni, conscio di un crollo totale dei prezzi.”

Il solito senso comune qui mi dice che questo mercato di derivati, di cui una parte cospicua è costituita dai Cds, sembra avere proprio tutte le caratteristiche di una “bolla finanziaria”; una bolla che ha raggiunto dodici volte il Pil mondiale. E se dovesse scoppiare, come fanno tutte le bolle? Diciamo che il mercato dei Cds in questi ultimi tempi sta crescendo a dismisura per via dei tanti fallimenti annunciati o imminenti degli Stati. E il loro valore crescerà fino a quando il soggetto che assicurano non fallirà. Ecco lo scoppio: dunque lo Stato dichiara la bancarotta; la banca assicurante paga questi Cds -oppure no, perché fa un altro gioco dei suoi (siamo nel campo delle ipotesi)-; la stessa banca, se ha voluto specularci, nel frattempo ha fatto bei soldi; altri speculatori hanno fatto anche loro dei buoni affari; milioni di persone perdono tutto o quasi e si ritrovano in un paese azzerato e nel caos. Altro spunto possibile: che il valore di questi Cds possa crescere a tal punto da superare persino il valore che verrebbe corrisposto in caso di fallimento? Cioè che un Cds, che inizialmente vale 1 e che assicura un bene –la solita macchina- che vale 100, possa crescere così tanto da valere 300? Il che significherebbe che la banca che fosse riuscita a vendere a 300 l’assicurazione che valeva 1 ci guadagna comunque, anche dovendo pagare l’assicurazione per il valore di 100. Ma si tratta di un caso di fantasia e del tutto ipotetico. Certo, però, questo mercato di derivati di 600 trilioni di dollari, valore altissimo e,possibilmente, gonfiatissimo, deve essere arrivato in qualche modo ai suddetti livelli “slegati da ogni principio razionale”!

Io ritengo che se in questo momento sembra che, uno dopo l’altro, gli Stati siano in affanno e rischino di fallire, ciò non è dovuto alla fragilità dell’economia -saremmo in piena ripresa-, e neanche a debito pubblico e deficit alti –vedi Giappone- , ma perché un certo mondo della finanza con i debiti e con i fallimenti ci fa un sacco di soldi.

Che accadrà? Ho trovato una interessante affermazione di certo Ludwig Von Mises (1881-1973), economista austriaco che ha lavorato per lo più negli States, che dice:

 "Non c'è modo di evitare il collasso finale di un boom indotto da un'espansione creditizia. La scelta è solo se la crisi debba avvenire prima come risultato dell'abbandono volontario di un'ulteriore espansione del debito o più tardi con la totale catastrofe del sistema monetario coinvolto"

Ammetiamo pure che le cose stiano così. Quale sarebbe una possibile soluzione? Forse l’azzeramento in tronco del debito pubblico e la messa al bando dei Cds e dei derivati in generale. Significherebbe che gli Stati darebbero il ben servito ai creditori, i quali, dopo tanti interessi incassati e dopo tante speculazioni andate a buon fine, pagherebbero, una volta tanto, di tasca loro. Significherebbe fare “sgonfiare” la bolla senza che a pagarne le conseguenze siano gli Stati e le persone, per ritornare all’ economia reale fatta di lavoro vero e non di giochi speculativi, capaci di fare collassare il sistema in nome del dio denaro. Ma c’è una notizia datata  4 maggio 2010 che solo pochi giornali hanno diffuso e che si trova, per esempio, nel Bloomberg business  (www.businessweek.com/news/2010-05-04/merkel-s-coalition-calls-for-eu-orderly-defaults-update1-.html). In due parole, il cancelliere Angela Merkel starebbe studiando la possibilità per uno Stato dell’Unione europea di dichiarare lo stato “d’insolvenza ordinaria”, i cui risvolti –devo dire- non mi sono chiari. Sembrerebbe un modo per ripartire le spese di una ristrutturazione del debito tra creditori e i contribuenti dello Stato in questione: in soldoni, stavolta non sarebbe soltanto il popolo contribuente a pagare il conto, ma anche chi detiene il debito pubblico -i creditori, per l’appunto.
A motivare una mossa di questo tipo sarebbe la concreta possibilità di evitare questo inutile e fallimentare prestito alla Grecia, oneroso per gli Stati membri dell’Unione europea –ancora più oneroso per la Grecia nella fase di restituzione, visto il tasso decisamente elevato -  e, ancora, di bloccare i brutti tiri della speculazione. Chissà.

A me pare chiaro che, se le istituzioni non si muoveranno in modo drastico e repentino contro il mondo della speculazione finanziaria, per come stanno le cose oggi la Grecia fallisce, e con lei altri Paesi europei, con ripercussioni pesanti per tutte le altre economie. In altre parole, si è arrivati al punto limite in cui, o la politica ammette a se stessa che la speculazione finanziaria, che crea guadagni dal nulla e che fa un “servizio” agli Stati, perché ne alza artificiosamente il Pil, minaccia l’esistenza degli Stati stessi; o la bolla scoppia con conseguenze imprevedibili e incontrollabili.

Quale che sia l’esito di questa situazione, torniamo adesso al motivo per cui sto scrivendo questo articolo di opinione. Vedendo la piega che sta prendendo la stabilità dell’Europa, mi sono fatto l’altra notte una domanda: se succede che, una dopo l’altra, le economie degli Stati europei crollano, cosa penseranno di questa grande catastrofe le persone coinvolte? Che è colpa dei Greci, che ci hanno “contagiati”? Dei Tedeschi, che hanno esitato a dare il prestito? Degli Spagnoli? Dei Portoghesi? O di qualche altro popolo ancora? 

Io spero che chi legge questo articolo, come me, ritenga che la colpa di tutto ciò sarebbe di qualche politico corrotto o avventato e del mondo della finanza che specula su questa crisi, probabilmente indotta.
Credo in quello che sto scrivendo, e credo di essere arrivato a qualche conclusione, a una maggiore approssimazione alla verità rispetto a quella che sento ai telegiornali.

Non venga in mente a nessuno di dare la colpa a un popolo, sia esso greco, tedesco o americano. E se qualcuno lo fa, spieghiamogli perché si sbaglia. Per questo è compito di ognuno informare quante più persone possibile. Facciamo in modo che l’odio tra i popoli non alzi la cresta.  

Palermo, 7/5/2010

domenica 25 novembre 2012

La democrazia di Kafka

Lo Stato è fatto dal corpo dei cittadini, anzi, lo Stato è il corpo dei cittadini. Ciò è ancora più valido ove si tratti di uno Stato a regime democratico.
Un  paese democratico è tale nella misura in cui i suoi cittadini possiedono ed esercitano il diritto di voto, ma questo non è del tutto vero. O meglio: non è solo questo.
In un regime democratico l'esistenza e la tenuta dello Stato sono nelle mani dei cittadini che ne fanno parte. Ne segue che i cittadini esercitano la democrazia nel momento in cui tutelano lo Stato stesso da ciò che lo possa danneggiare. Ma attenzione: non ci stiamo riferendo semplicemente ad eventuali minacce esterne, quali guerre, embarghi o simili. A rigor di logica ogni violazione della legge che colpisca anche nella maniera più lieve il cittadino è da considerarsi una offesa diretta allo Stato stesso, dal momento che istituzione e individui sono così intimamente legati.
Il cittadino dunque esercita il suo diritto democratico nel momento in cui si difende ricorrendo al potere giudiziario, qualora sia vittima di un soppruso; e l'esito di una tale vicenda ha un peso che va al di là della dimensione individuale, ma investe indirettamente anche lo Stato e così tutti i cittadini.
Se infatti il crimine commesso non viene sanzionato, ciò non farà che aumentare l'impunità e di fatto incoraggiare l'attività criminale indebolendo lo Stato.
Al fine di preservarsi dall'ingiustizia lo Stato, e soprattutto lo Stato democratico, deve dotarsi di un apparato giudiziario tale da mettere il cittadino in condizione di difendersi senza temere ritorsioni, costi processuali elevati e tempi lunghi. Qualora ciò non accadesse, come per altro accade nella maggioranza delle democrazie nel mondo, lo Stato è più debole, perchè il corpo cittadino non è disposto a rischiare di cercare giustizia a costo della propria incolumità, del proprio patrimonio e del proprio tempo.
Quando ricorrere alla giustizia è difficile e foriero di fastidi se non addirittura di pericoli, i cittadini diventano più timorosi e via via più tolleranti di fronte all'ingiustizia.
Se la privazione del diritto di voto è segno chiaro della mancanza di democrazia, altrettanto lo è un sistema giudiziario che non funziona come dovrebbe.